gruppo di frascati

L’importanza di vivere il dolore

28/01/04

Pioggia d´autunno

Che sei che vieni

Perché mi guardi chiedendo

Violini accompagnano il vento

Lagrime d´argento

Disegnano sul tuo viso

Albero senza frutto attendi le foglie

Io inseguo il tuo presente cullandomi

nel tuo sogno.[1]

In Il sentimento del ricordo si è accennato come «ogni conoscere significa in certo qual modo un riconoscere»[2] e nel contempo «il nostro apprendere non sia altro che un ricordare»[3]. L´occhio, l´orecchio, il tatto, tutti i nostri sensi producono al “centro” dell´individuo delle immagini. Quando si dichiara che si sta “creando”, “inventando”, in verità si dovrebbe asserire che “sto trovando dentro di me”, «inventare da invenire, trovare»[4].

I miliardi di immagini che si trovano in noi, che si sommano, si moltiplicano, si semplificano, si arricchiscono, dimostrano come «noi viviamo direttamente solo nel mondo delle immagini»[5].

Che a disegnar quinte e fondali

Faccio la scena

E me

Dentr´essa

Trovo il mio cerchio.[6]

Ogni esperienza espressa esternamente non è che un riflesso di quella interiore. Nell´esterno rispecchio me stesso.

La vita di un individuo è basata su quello che ricorda, «per usare le parole di Gabriel Garcìa Màrquez, la vita di una persona non è quello che è accaduto ma quello che ricorda e come lo ricorda… L´immaginazione non fugge in un altrove estraneo al mondo, al contrario penetra in esso, nelle sue piaghe segrete e ne svela la trama invisibile»[7].

«L´immagine non è ciò che vediamo, ma il modo in cui vediamo»[8]

Mentre anche il corpo è una concretizzazione o una funzione di quella cosa che produce sia la psiche che il corpo… la psiche è corpo vivente, così come il corpo è psiche vivente.[9]

D´approssimar commedie

Posso agl´ingresso […]

E sceneggiar fino sul mare

Che d´apertura a intorno […]

E sceneggiar fino a nel bar

che d´apertura al luogo […]

che poi

se resto qui

è stessa cosa che se a Canicattì […]

ma di virtualità fo gran passeggiate.[10]

La danza del propriocettivo.

Danzare se stessi

al suono della propria musica

non curandosi del resto

che comunque non conosco.[11]

L´oscillazione può essere accesa sia da fuori che da dentro … il processo rimane lo stesso.

Il primo stimolo modifica il sistema “a sua immagine e somiglianza”. Il secondo stimolo influenza il sistema, ma sarà a sua volta esso stesso influenzato dal primo. Il terzo stimolo sarà influenzato dal primo e dal secondo e così via … se dopo disparati stimoli si ripresenta il primo, il sistema lo leggerà come se fosse un quarto, ma, in ogni caso il suo percorso avverrà con maggiore velocità.

Gli accrescimenti nascono durante il caos. Il caos prepara nuovi accrescimenti … Il caos è sentimento, emozione.[12]

Simile congegno enunciato durante Il Laboratorio del venerdì, si genera nel microcosmo dell´essere; un “dispositivo” interpretabile con termini e concetti offerti dall´antropologia fisica. Tuttavia, per valorizzare i pensieri e le poesie del Laboratorio i termini a cui farò riferimento in questa sede saranno quelli provenienti dall´ambito dell´antropologia culturale, in particolar modo accennerò al Funzionalismo di B. Malinowski, alla Fenomenologia di Van der leeuw, e infine all´etnologia di Ernesto De Martino. Laddove l´antropologia fisica ha attinenza con quelle peculiarità fisiologiche dell´uomo, a quella eredità che viene trasmessa col D.N.A., l´antropologia culturale pone l´accento soprattutto al concetto di “eredità sociale”.

Dopo lo sviluppo dei bisogni primari (nutrirsi, riprodursi ecc.) vissuti dall´uomo animale ­ “homo” ­ (natura ­ primo stimolo), seguono i bisogni secondari (politica, economia, ecc. ­ secondo stimolo); tali bisogni secondari ri­determinarono, e ri­influenzarono (a loro volta) i bisogni primari: l´uomo cominciò a vivere, ad esempio, il momento della sessualità in modo culturale. Malinowski, nell´ambito dell´antropologia culturale, si domanda quale possa essere lo stimolo esterno che determina la nascita e lo sviluppo della cultura. Seguendo lo schema enunciato da Antonio e contemporaneamente accostarlo alla “terminologia” di Malinowski, si tenterà di sottolineare come una delle specificità dell´uomo sia quella di soddisfare in modo culturale (che in generale possiamo considerare come “secondi accrescimenti”) i bisogni biologici e naturali (“primi accrescimenti”).

L´uomo dipende dall´apparato artificialmente prodotto delle armi, degli attrezzi agricoli, degli arnesi della tecnica e della pesca, così come dipende dalla cooperazione organizzata e da valori economici e morali.[13]

Gli imperativi fondamentali, i bisogni naturali, che determinarono i primi accrescimenti, si sono realizzati poiché l´homo innanzi ad un problema critico lo ha risolto, operando delle scelte, le quali hanno: prima previsto (una sorta di collegamento neurale “prova”, o “fantasma”, il retroscena, l´antefatto del presentimento) poi realizzato; concretizzazione che ha determinato un infittimento neurale (secondi accrescimenti). I bisogni derivati, che possiamo considerare come bisogni culturali hanno determinato la risoluzione dei bisogni primari. Quando l´uomo sente lo stimolo della fame, non è spinto solamente a mangiare, ma si inseriscono in questo semplice gesto dei “tabù”, delle “regole”, come ad esempio mangiare in un determinato spazio e tempo, e con le dovute persone.I miliardi di accrescimenti dell´uomo devono essere ricondotti al bisogno umano di fronteggiare le numerose situazioni critiche sparse lungo la sua esistenza, individuale e collettiva, poiché «ogni crisi importante della vita umana comporta un forte sconvolgimento emotivo, un conflitto mentale e una possibile disintegrazione. Le speranze di un esito favorevole devono scontrarsi con ansietà e cattivi presentimenti»[14]. La risoluzione di una crisi deve seguire ­ non solo le modalità personali con cui sono state risolte la crisi in passato ­ il modello collaudato dal gruppo sociale che offre al singolo individuo la direzione, il modello per risolvere quella determinata crisi. L´individuo, a sua volta con la propria esperienza, con i propri “differenziali” continuerà a modificare il modello per ri­donarlo inseguito ad altri.

L´istituto religioso, col suo relazionarsi con un tempo eternamente presente, che è il tempo del mito («coi denti legato a quel passato»[15]) offre la possibilità di intervenire sulle crisi e risolverle secondo i propri paradigmi (di a­spazialità e di a­temporalità). La religione (interpretiamola come il terzo accrescimento) manipola gli avvenimenti in modo che possa emergere solo la prospettiva positiva, cioè la fuoriuscita dalla situazione critica; l´istituto religioso attiva un coma momentaneo nell´individuo.

Chi sei che vieni chiamandomi da dentro

Io non posso niente contro di te

Cosa vuoi farne della mia pazzia

Sei te che scorgo sconosciuta

E tu mi spingi

Ti chiudo

Ma vieni nuova

Non conosco la tua sorgente

Ed io chi sono

Come posso ascoltarti

Come posso sentire il passato

Dov´è il mio presente.[16]

La crisi di non poter sentire, di non conoscere dove tutto ha origine. La crisi è l´impossibilità di “sentire il passato”, ma a da questa mancanza si dipana la facoltà (quella tipica umana di “fingere”, di far “commedia” degli eventi) di oltrepassare le difficoltà “risuonando da dentro a fuori forme già fatte”.

Solo quando la memoria è sentita come presente, “dei miei dolci sentieri finalmente il presente”, quando la memoria è sentita come immagine, può tentare di “fare teatro del coma” e risolvere la situazione critica.

A ritrovar gli stesi sensi

Che quella volta

Del provenir da fuori

Di spiegazione presi.[…]

Andare lievemente toccando la melodia tenue

Dei miei dolci sentieri

Finalmente il presente

Vellutati vortici trasparenti sfiorando

Conducono nel mare limpidamente blu

di una quiete infinita

Profumi colorati avvolgono gli occhi che

Non si curano più di morire.[17]

La teoria di Gerardus Van der leeuw, contenuta in L´uomo primitivo e la religione, [Torino, 1961], attesta come l´uomo primitivo non concepisce il mondo come un dato esterno, ma come qualcosa che coesiste con sé medesimo, quindi governabile dall´interno. La magia rappresenta uno dei tanti modi escogitati dall´uomo per dominare l´esterno­interno, per controllare il mondo: «ciò che distingue la magia è che in via di principio vuol dominare il mondo»[18].

Le pratiche magiche non sono altro che proiezioni di avvenimenti psichici, le quali esercitano una controinfluenza sulla psiche, agendo come una specie di incantesimo sulla propria personalità. Si tratta, in altri termini, di ricondurre, con l´appoggio e la meditazione di un´azione esteriore, la propria attenzione, o meglio, (la propria) partecipazione, a un recinto sacro interiore, che è origine e meta dell´anima.[19]

Il formarsi della cultura è quindi, a mio avviso, strettamente collegato ad un altro concetto che spiega come posseggo: «una rete neurale più interna ed una più esterna. Tra queste due ho altre reti intermedie chiuse in se stesse dove avviene la creatività»[20]. E´ un sistema di specchi che controbilanciano continuamente stimoli interni ed sterni, dove ogni specchio si crede sorgente, e in cui può essere inserito il modellarsi della cultura.

A trattenere fonti

Scena su scena

Mi faccio specchi. […]

Essere sulla parete di ghiaccio

che minacciosa chiama a specchiarti

ti guardi riflesso

quel riflesso diviene anch´esso ghiaccio

a stringerti di freddo abbraccio

ora fai parte con gli altri sguardi di

quell´ammasso e parli di lui

per non sentire la prigione

ora è tardi per te

il freddo ti ha bloccato e inizi il richiamo

perché altri si aggiungano a farne parte[…]

ad arginar la dispersione

corro che a far da specchio

una figura cerco.[21]

Ma il problema della creatività nell´uomo, è molto intrigato, infatti l´artefice dell´arte in primo luogo offre una forma alle instabilità. Rischiose discontinuità interne all´artista che nel loro procedere influenzano e colpiscono le instabilità del fruitore.

Il processo creativo, per quanto possiamo seguirlo, consiste nell´attivazione inconscia di un´immagine archetipica, e nell´elaborare e dare forma, a questa immagine trasformandola nell´opera finita. Dandole forma l´artista la traduce nel linguaggio del presente, e in questo modo fa sì che sia per noi possibile trovare la nostra via, che ci riporta alle più profonde sorgenti della vita.[22]

L´«attivazione inconscia dell´immagine archetipica», è il momento finale (ma è anche la genesi di una nuova evoluzione) di un processo interno al propriocettivo che accende l´ologramma atto a risolvere la situazione. Il processo, a cui ci riferiamo, è l´evoluzione del dolore, è l´importante necessità di vivere il dolore.

Il dolore, il sentimento del dolore è una facoltà non una impotenza. E´ la carica creativa. Il sistema si stabilizza se la rete più interna riconosce quella più esterna.[23]

Nigredo, riassumendo Jung: è la confusione, chaos, che nasce dallo scontro tra coscienza e inconscio. Da questa collisione emergono simboli che sono unificatori e possiedono carattere di totalità.[24]

L´ologramma che emerge, da queste collisioni tra i vari interni e i vari esterni è una immagine simbolo, non chiusa in sé, ma facente parte di una ragnatela di collegamenti che portano l´individuo a vedere e a prospettare ­ in stato di sogno e in stato di veglia ­ dei collegamenti simbolici tra oggetti naturalmente lontani[25]. Il simbolo non rappresenta un modello statico. Se lo guardiamo da dentro unisce e divide parti del cosmo; se visto dall´esterno è un perpetuo trasformarsi, è un´incessante risuonare, pur se si presenta all´osservatore interno con la maschera del modello, un´immagine a cui sottostare, a cui riferirsi.

Che poi

D´ambiente fuori

Ad iniziar della risposta

Di risonar fino a profondo

Da stesso sedimento

Cresce altra figura. […]

E di sostituir la scena in corso

Scorro i quadranti

A ricercar l´effetto che voglio.[26]

Il Nome

Una esigenza umana è quella di dare un nome a tutto ciò che è stato abituato ad osservare. Dare il nome è un modo per controllare l´emozione che circola in me (che potrebbe essere causata anche da un semplice frutto appeso ad un albero) significa evitare di oltrepassare quella soglia di là dalla quale il sistema si danneggerebbe. Se guardo per la prima volta, ad esempio, una pesca, il mio sistema farà accostamenti con forme simili, con altri frutti, ecc. Successivamente nascerà in me (da ricordarsi che il me è determinato in gran parte dall´eredità sociale in cui sono inserito) il nome “pesca”, che conterrà tutti quei collegamenti simbolici, le strade interne, che mi hanno portato a rinvenire le lettere “p” “e” “s” “c” “a”, ma che conterrà anche le vie mai adottate.

Dare il nome è dare una possibilità al sistema di dissipare energie.

Che poi però dalla caduta

Avverto solo il linguaggio.[27]

L´Horlà di Maupassant è un esempio che possiamo citare per descrivere il processo del dolore, e il processo per dare il nome. Inizialmente le ansie, il dolore vengono percepiti come dei vuoti, ancor più pericolosi, poiché rischiano di mandare in tilt (un tilt distruttivo e non un coma voluto) il sistema. La continua circolazione del dolore, dell´emozione, trova alla fine del racconto una fuoriuscita nel momento in cui viene dato il nome al fantasma che assilla la presenza del protagonista.

Il processo del dolore crea nel personaggio di L´Horlà una vera e proprio scissione della personalità. Facendo riferimento alle testimonianze etnografiche (delle genti del sud Italia) di sdoppiamento riportate in “Sud e Magia”[28] di Ernesto de Martino, tenteremo di suddividere la scissione della personalità in tre stadi, a cui verranno paragonati la creazione di fantasmi nell´Horlà.Il primo stadio viene definito dall´etnologo, che si serve, come si vedrà, di una terminologia proveniente dalla psicologia[29], come “sentimento di vuoto”:

“Io non sono in me: sento di essere dietro le mie spalle verso sinistra, ad una distanza maggiore o minore secondo ch´io sia più o meno malata … [o ancor peggio]… il se stesso dislocato nello spazio come se fosse un altro, appare già in atto di diventare un altro che trascina: “Mi sento parlare ed è uno che parla, sono sorpreso di rispondere le cose che rispondo … Non sono più padrone di ciò che faccio e penso, mi si trascina … [e infine ]… appare in modo netto il passaggio dallo stato di vuoto all´esperienza di una alterità che è già al di là dell´ordine normale o storico…:”Tutto in me è lettera morta … mi si presta l´anima di un altro, non sono che una povera marionetta tirata dai fili da tutte le parti, mi si ruba l´anima.[30]

Nel “sentimento di vuoto” è posseduto ancora un margine di coscienza; insorge la sensazione che qualcosa di strano stia accadendo. La presenza, però, comincia a vacillare, e la possibilità di dare valore, di dare il nome si affievolisce.

Ne L´Horlà si legge come questo primo stadio venga rappresentato da un angoscia che avanza, ancor più pericolosa poiché priva di forma.

12 maggio … sono indisposto, o meglio triste. Da che provengono questi influssi misteriosi che mutano in scoraggiamento la nostra gioia … l´atmosfera invisibile, è piena d´inconoscibili Potenze delle quali subiamo la vicinanza arcana… Com´è profondo, questo mistero dell´invisibile! Non possiamo scandagliarlo coi nostri sensi…

16 maggio Ho continuamente quella spaventosa sensazione d´un pericolo che m´incombe, quell´apprensione d´una sciagura immanente o della morte prossima.

25 maggio … Man mano che la sera si approssima, m´invade un´inquietudine incomprensibile, quasi che la notte nascondesse per me una minaccia tremenda […] Appena entrato chiudo a doppia mandata e metto il chiavistello: ho paura di che?[31]

Nel secondo stadio, definito da De Martino come “paranoia di influenza”, le energie cominciano a prendere corpo indipendentemente dall´Io[32], che pur rimanendo cosciente assiste non più a pre­sentimenti, ma a vere e proprie allucinazioni. Vengono richiamati dal propriocettivo degli ologrammi ricchi di energia. La creazione di allucinazioni si deve interpretare, fortunatamente, anche come un modo per dissipare le energie, controllate totalmente solo nel momento in cui queste andranno a coincidere con un simbolo (in cui andranno a coincidere con un nome).

[…] la psicosi comincia come una allucinazione psichica, più raramente psicosensoriale, ovvero con pensieri e sentimenti che non si avvertono come propri […] con l´insorgere di pseudoallucinazioni, col moltiplicarsi dei movimenti automatici e con l´acutizzarsi delle sensazioni dolorose e strane, “tutta una parte del loro essere appare sotto la dominazione di un altro.[33]

L´Io, pur rimanendo ancora vigile, avverte un altro essere che lo domina, lo comanda. Nelle pseudo­allucinazioni psicosensoriali si ha la sensazione di essere degli “allucinati ragionanti”, in quanto la coscienza riesce ancora a prendere atto di quello che sta accadendo.

25 maggio Sento benissimo che sono a letto e che dormo … lo sento e lo vedo … e sento altresì che qualcosa mi si avvicina , mi guarda mi palpa , sale sul mio letto , mi si inginocchia sul petto , mi prende il collo tra le mani e stringe … con tutta la sua forza per strangolarmi.

2 giugno […] D´un tratto mi sembrò di essere seguito. D´avere qualcuno alle calcagna, così vicino da toccarmi.

6 agosto […] vidi, vidi distintamente, vicinissimo a me, il gambo d´una di queste rose piegarsi come se una mano invisibile l´avesse curvato, poi rompersi come se quella mano l´avesse colta […] mi slanciai per afferrarlo! Non trovai nulla: era scomparso.[34]

Dal racconto L´Horlà basato in larga parte su questi primi due stadi, si evince, come lo stato di angoscia, una «sensazione d´un pericolo che […] incombe», può essere vista ­ alla luce delle interpretazioni di Ernesto De Martino ­ come un segnale di smarrimento della presenza[35]. L´Io si sta smarrendo nella fluidità delle cose, totalmente interne a noi dove gli oggetti[36], uscendo dal loro abituale quadro, perdono la consistenza riproiettando l´individuo in quel mondo di fluidità che era l´età infantile, quando stavano avendo luogo i primi percorsi.

Il rischio radicale della perdita della presenza è segnalato da una reazione totale che è l´angoscia […] l´angoscia si determina nella presenza come reazione davanti al rischio di non poter oltrepassare i suoi contenuti critici […]. L´angoscia segnala l´attentato alle radici stesse della presenza, denunzia l´alienazione di sé a sé, il precipitare della vita culturale nella vitalità senza orizzonte formale. L´angoscia sottolinea il rischio di perdere la distinzione tra soggetto e oggetto, tra pensiero ed azione, tra forma e materia […] L´angoscia indica che la presenza resiste alla sua disgregazione: ma le resistenza e le difese che hanno luogo in regime di crisi hanno il carattere comune di essere sostanzialmente improprie, in quanto non ripristinano la signoria del mondo dei valori e non valgono a reintegrare in modo attivo nella realtà storica di cui si fa parte.[37]

Il protagonista della novella di Maupassant cerca di proteggersi richiamando ­ cominciando a dare dei nomi ­ ologrammi interni; una sorta di soglia premonitrice che avverte che oltre la quale resta solo la soglia finale di rottura del sistema.

Gli abitanti impazziti abbandonano le case, disertano i villaggi, lasciano le terre , si dicono inseguiti, posseduti governati da esseri invisibili benché tangibili, specie di vampiri che si nutrono della loro vita durante il sonno […] è venuto Colui che fu uno dei primi terrori dei popoli ingenui, Colui che i sacerdoti inquieti esorcizzavano, che gli stregoni evocavano nelle notti oscure senza ancora vederlo apparire, al quale i presentimenti degli effimeri padroni del mondo attribuirono tutte le forme mostruose o graziose degli gnomi, degli spiriti, dei genii, delle fate, dei farfarelli.[38]

Il protagonista di L´Horlà più scende in profondità, più si avvicina all´immagine ologrammica principale, la parola simbolo: Horlà, che raccoglie in sé il dedalo intricato di percorsi interni/esterni.

Negli “stati di possessione”, la presenza e l´Io affondano definitivamente e:

[…] una seconda personalità aberrante e perversa irrompe bruscamente sostituendosi alla coscienza storica […] la vittima dell´attacco non ha più la esperienza di essere­agito­da […] vi è una interruzione effettiva nella durata della coscienza personale, una lacuna in cui agisce una personalità in netto contrasto con quella normale.[39]

Non possedendo più la sensazione di essere­agito­da, ogni ricordo di me è annullato, pietrificato. Gli altri esseri che si impossessano dell´individuo, possono essere anime di morti, ma anche vere e proprie presenze demoniache. In L´Horlà non viene raggiunto questo stadio, in quanto un barlume di coscienza rimane sempre.

14 agosto Desidero uscire. Non posso. Egli non vuole; e io resto smarrito tremante, nella poltrona dove sono seduto. Desidero alzarmi soltanto, sollevarmi, per credermi padrone di me. Non posso! Sono ribadito al sedile.

[…] un rogo nel quale bruciavano alcuni uomini e nel quale bruciava anche lui il mio prigioniero, L´Essere nuovo, il nuovo Signore, L´Horlà[40]

Attraverso le sue ultime parole prendiamo visione di come l´Horlà, sia oramai l´unico padrone della scena interna, sente, addirittura, il peso del corpo del suo padrone. La novella termina in «un rogo nel quale bruciavano alcuni uomini e nel quale bruciava anche lui il mio prigioniero, L´Essere nuovo, il nuovo Signore, L´Horlà»[41]. “Lui”, “il mio prigioniero”, “lo schiavo”, “l´agito”.

Che poi però dalla caduta

Avverto solo il linguaggio.[42]

Tutta la novella è il succedersi di tentativi per dare il nome ad un eccesso di energia interna, un modo, che in ultima analisi è la scrittura stessa di Maupassant, scrittura, creatività per dissipare il dolore.

Le perturbazioni creano accrescimenti, le quali devono inevitabilmente creare accrescimenti per evitare di farle rimanere perturbazioni chiuse in se stesse.[43]

Il procedimento per donare un nome al “fantasma” (l´altro, comunque sia la sua forma deve essere d´accordo!) è una modalità per non far restare la perturbazione chiusa in se stessa.

Crisi ­ memoria ­ simbolo (dall´homo all´uomo ?).

L´energia informe presente nel protagonista di L´Horlà è stata trasformata in simbolo. Il nome stesso pur contenendo un´infinità di virtuali vie, di potenziali collegamenti, resta solo una infinitesima parte dell´intero sistema.

Quando vedo, in verità sto guardando rinvenendo il simbolo, un elemento senza spazio e senza tempo, ma che aiuta a riacquisire spazi e tempi umani, quotidiani.

Per stabilire un accrescimento si deve dare “valore” alla situazione. Dare valore significa non rimanere chiusi nella “situazione” naturale, e, inoltre, essere padroni del processo che porta ad un equilibrio con le energie interne.

Armoniosamente dell´armonia dell´universo

Spazialità armoniosa di un rapporto universale

Tutto armonia di sempre

E sentire il vuoto intorno.[44]

Ogni accrescimento produce una rete neurale nuova. La nuova rete neurale si realizza attraverso la memoria, un fenomeno presente. Le involuzioni sono evoluzioni. Una iniziale decadenza, complicazione è in verità un progresso, un miglioramento perché acquisisco nuove strade, nuovi percorsi.[45]

Che poi quando fu tardi

Di scena a interpretar

Rincorsi tutte le parti.[46]

Ogni qual volta al nostro centro giunge uno stimolo nuovo, interviene un´oscillazione, che trova il suo sbocco quando viene a ricrearsi la coincidenza (simbolica) con quello che si è presentato fuori; più precisamente: con quello che io desideravo si presentasse fuori. Tale “fuori” deve essere inserito nel nostro centro di simbolizzazione, tramite una immagine che è al di là dal tempo e dallo spazio, in un luogo mitico interno ad ogni individuo. La situazione viene risolta perché il simbolo possiede una indefinita quantità di labirinti, si unisce ad altri simboli, e possiede in partenza anche “le strade mai percorse”.

Gli studi etnologici di De Martino, precedentemente accennato, si determinarono in primo luogo attraverso lo studio dell´individuo. Studi che oscillarono tra la psicologia, la filosofia di Heidegger, il marxismo.

Senza considerare le implicazioni religiose, è tuttavia fondamentale introdurre i concetti demartiniani di “presenza”, e di “momenti critici dell´esistenza” in modo tale da collocarli nel nostro discorso.

De Martino prende come punto di partenza delle suo pensiero il concetto di “momenti critici dell´esistenza”.

I momenti critici dell´esistenza sono quelli connessi alla ricerca di cibo e alla nutrizione, alla fabbricazione e all´impiego di strumenti tecnici […]. In tutti questi momenti la storicità sporge, il ritmo del divenire si manifesta con particolare evidenza, il compito umano di “esserci” è direttamente e irrevocabilmente chiamato in causa, qualche cosa di decisivo accade o sta per accadere, costringendo la stessa presenza ad accadere, a sporgere a se stessa, a impegnarsi e a scegliere: il carattere critico di tali momenti sta nel fatto che in essi il rischio di non esserci è più intenso, e quindi più urgente il riscatto culturale.[47]

I termini a cui si deve fare attenzione sono “presenza”, “scelta”. Sono le scelte che dobbiamo compiere che determinano momenti caotici. Proprio nei momenti in cui la presenza dovrebbe essere più vigile, rischia, viceversa, di non esserci.

Cercando di delimitare la nozione di “presenza” useremo quella scelta da Marcello Massenzio[48],: «La presenza è movimento che trascende la situazione nel valore».[49]

La presenza è, dunque, dinamismo culturale in virtù del quale l´uomo non si limita a subire le situazioni in cui oggettivamente si trova coinvolto, ma è in grado di conferire loro un significato compiutamente umano (il valore) che induce ad assumerle in modo consapevole e attivo. […] I momenti critici […] richiedono una presenza umana collettiva particolarmente vigile, […] ma proprio il peso dell´eccezionalità può indurre la paralisi della presenza e, con essa, la stasi dell´attività valorizzatrice: stasi a cui corrisponde il regresso della cultura alla natura.[50]

La presenza umana collettiva, deve essere considerata come immersa in una doppia ragnatela interna, ed esterna a noi, che ci lega alle innumerevoli situazioni.

Prevedere la fuoriuscita del dolore (1)

Destorificare significa occultare la storia. Si deve differenziare la destorificazione irrelativa (la morte del sistema), un occultamento della realtà, uno spegnimento nei confronti dell´interno e dell´esterno, in cui l´individuo perde la possibilità di scegliere. E´ una insorgenza spontanea in quanto decadono i legami simbolici con altre situazioni. La destorificazione culturale è un coma momentaneo del sistema, dopo il quale l´uomo può tornare a scegliere.

Se la situazione oggettiva è tale da mettere in dubbio la possibilità di essere umanamente padroneggiata, l´istituto della destorificazione religiosa provvede a negarla per quello che di fatto è, presentandola come se, fosse la ripetizione di una situazione analoga che si è verificata in illud tempus del mito. Ciò implica l´assimilazione del presente critico all´esistente da sempre, vale a dire ad un paradigma assoluto di crisi, in cui la crisi stessa ha trovato uno sbocco positivo. Per effetto di questa riplasmazione trasfigurante, la gravità del momento critico risulta depotenziata e, parallelamente, appaiono attenuati i suoi effetti devastanti sulla presenza.[51]

E´ fare la scena dentro di me, è «indice del superamento culturale dell´esistente».[52]

Scena s´accende

Che il corpo mio a risonar

tra percezione e sedimento

D´emulatore avviene.[53]

Brevi percorsi poetici per uscire dalla crisi

Nel mezzo del cammin di nostra vita

Mi ritrovai per una selva oscura,

ché la diritta via era smarrita.

Ah quanto a dir qual era è cosa dura

esta selva selvaggia e aspra e forte

che nel pensier rinnova la paura.[54]

Il viaggio compiuto da Dante nella Commedia esprime come il poeta sia riuscito ­ attraverso un percorso virtuale, ma concretamente visibile a noi e a lui stesso, attraverso i versi poetici stessi ­ a fuoriuscire, non occultando, ma vivendo fino in fondo il suo dolore. Il nesso che brevemente si deve congetturare è quello tra i termini: viaggio, dolore e commedia. Dante percorrendo le innumerevoli strade del dolore, avendo, sin dall´inizio, la prospettiva di una fuoriuscita (commedia), riesce a portare a compimento il suo viaggio.

Il disturbo è importante non tanto perché sottintende un´origine quanto perché sottintende un fine. “La nevrosi ­ dice Jung ­ non costituisce per nulla un elemento negativo, ma anche un fattore positivo … e se la nevrosi potesse essergli strappata come un dente cariato … non ci guadagnerebbe in nulla.[55]

Dante sin dai primi passi che compie nella commedia “sottintende un fine”: «perché pensando, consumai la �mpresa». Ma il viaggio deve essere compiuto totalmente perché deve essere raggiunta “quella oscura costa” che ogni individuo porta interiormente, e in cui vengono approssimate anche le oscure coste di altri individui, di altre esperienze.

E qual è quei che disvuol ciò che volle

E per novi pensier cangia proposta,

sì che dal cominciar tutto si tolle,

tal mi fec´io in quella oscura costa,

perché pensando, consumai la ´mpresa

che fu nel cominciar cotando tosta.[56]

Nel V canto, nel girone dei Lussuriosi, Dante incontra Minosse che può essere interpretato come una allegoria del blocco del pensiero, di una momentanea perdita della presenza. Minosse vorrebbe opporsi al viaggio di Dante, ma Virgilio (e poi Beatrice), da immaginarsi come una metafora della soglia premonitrice, riesce a far oltrepassare quel caos che potrebbe generarsi nell´individuo. Crisi che si instaura nel momento in cui agli accrescimenti non viene offerta loro una veste simbolica (ovviamente gli accrescimenti devono accettare tale veste!).

Non impedir lo suo fatale andare:

vuolsi così colà dove si puote

ciò che si vuole, e più non dimandare.[57]

Per risolvere la situazione si deve richiamare a memoria situazioni sedimentate, divenute simbolo, presenti in un particolare spazio­tempo mitico interiore, nel nostro recinto simbolico.

Le confidenze che Francesca da Rimini rivolge a Dante le possiamo commentare come inerenti a quel problema che potrebbe causare una memoria non sedimentata, non simbolica.

«Nessun maggior dolore

che ricordarsi del tempo felice

ne la miseria;[58]

Dante successivamente è colpito dal massimo dolore nato da quelle incertezze insorte dopo il fallito esito della ricerca interiore.

E caddi come corpo morto cade.[59]

Il secondo esempio a cui si può far riferimento è il momento della follia che colpisce Orlando nell´Orlando furioso.

Nel momento centrale dell´opera Orlando si crea delle false immagini che non riescono a risolvere la situazione poiché queste in realtà non contengono alcunché di simbolico[60].

Ariosto rappresenta in modo poetico la confusione dell´Io che si confonde e si sostituisce all´Altro.

Nel canto XXIII, Orlando dopo un breve duello si mette in cammino alla ricerca di uno dei tanti suoi avversari (Mandricardo) che costellano l´opera dell´Ariosto. Giunto ad un ruscello vede attorno a sé iscrizioni, fatte dalla mano di Angelica, la donna che ama, che portano il nome di lei e del suo amante: Medoro.

Volgendosi ivi intorno, vide scritti

molti arbuscelli in su l´ombrosa riva.

Tosto che fermi v´ebbe gli occhi e fitti,

fu certo esser di mano de la sua diva.[61]

In un istante egli è a conoscenza di tutto, come Dante che “pensando, consumò l´impresa”, ma tuttavia tenta di imbrogliare se stesso, con falsi immagini, prive di nessi simbolici. E´ un esempio di come il trauma non sottintende un fine, ma allo stesso tempo, vi è anche un elemento opposto, positivo. Difatti c´è un ritardo del “reset”, utile per acquisire ulteriori informazioni, che tuttavia, nel caso di Orlando, non riescono a collimare con quelle interne, con le sue informazioni­desideri. Le immagini che ci portiamo dentro, che vengono richiamate sono speranze, desideri, concreti come le virtualità dello spazio del mondo che portiamo internamente.

Va col pensier cercando in mille modi

Non creder quel ch´al suo dispetto crede.[62]

Il cavaliere, colpito in tutti i suoi sensi da una straordinaria gelosia, in principio considera che potrebbe trattarsi di un´altra Angelica e addirittura, in seguito, è disposto ad alterare la propria fisionomia, a mutar nome, a pensare che il nome “Medoro” sia un nome immaginario, addirittura dello stesso Orlando!

finger questo Medoro ella si puote:

forse ch´a me questo cognome mette.[63]

Questo è il momento in cui i collegamenti nella memoria vengono staccati, a cui seguiranno, fortunatamente, nuovi percorsi.

E´ il momento in cui il suo Io viene confuso con l´Altro, alterità che deve essere concepita come tutta interna al propriocettivo.

Le bugie che racconta a se stesso dipingono quella difficoltà che s´incontrano nel momento in cui smarriamo la strada, è il momento in cui dobbiamo decidere e rendere presenti vecchie memorie.

Con tali opin�on dal ver remote

usando fraude a se medesimo, stette

ne la speranza il mal contento Orlando,

che si seppe a se stesso ir procacciando.[64]

Orlando »usando fraude a se medesimo« tenta di alterare la realtà oggettiva, e successivamente quella soggettiva. Non è più io il regista della commedia, ma diviene un personaggio, che non sa nemmeno di essere personaggio. L´Ariosto adopera una similitudine per descrivere la sua situazione:

come l´incauto augel che si ritrova

in ragna o in visco aver dato di petto,

quanto più batte l´ale e più si prova

di disbrigar, più vi si lega stretto.[65]

L´uccello caduto in trappola, più tenta di districarsi, più rimane invischiato nella stessa.

Arriviamo poi al momento in cui ogni connessione viene staccata e rimane solo l´indifferenza, da non considerarsi un metodo per preservarsi, ma il momento antecedente al caos totale.

Era scritto in arabico, che l´conte

intendea così ben come latino […]

Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto

quello infelice, e pur cercando invano

che non vi fosse quel che v´era scritto;

e sempre lo vedea più chiaro e piano:

et ogni volta in mezzo il petto afflitto

stringersi il cor sentia con fredda mano.

Rimase al fin con gli occhi e con la mente

Fissi nel sasso, al sasso indifferente.[66]

La natura, tutto ciò che è a noi esterno/interno, la sua illimitata grandezza determina le nostre strade, i nostri percorsi interiori.

Orlando non si trova più nella condizione di attraversare qualcosa che è esterno a lui, ma piuttosto percorre le trame virtuali, districate, ma drammaticamente concrete del labirinto interno.

Che a non trovar specchio figura

Vertiginar

Corre d´effetto.[67]

Spesso il vertiginar nasce proprio dal considerare concreto ciò che è virtuale, nel senso di potenziale, eventuale, prevedibile, e viceversa.

Non solo »l´indifferenza, che sta al di fuori, riporta all´indifferenza che abita nel profondo«[68] ma essa tende a coincidere, dal momento che l´esterno è solo un insieme di indizi che vengono riconfigurati dal propriocettivo in base alla “palestra” delle passate esperienze.

Orlando continua a cercare una falsa quiete, non produttiva perché non rivolta a superare la situazione.

Quanto più cerca di ritrovar la qu�ete,

tanto ritrova più travaglio e pena;[69]

Il protagonista cerca di difendersi da quello che il propriocettivo ha già percepito, e ciò viene commentato da Ariosto in questi termini: »poco gli giova usar frode a se stesso«[70].

Infine si giunge all´azzeramento che colpisce definitivamente Orlando, ma che per buona sorte lo porterà in seguito a ritrovare il suo senno (sulla luna!). Orlando è come morto e dice di non esser più lui (si deve ricordare gli sdoppiamenti precedentemente riportati di L´Horlà):

io son lo spirito da lui diviso,

ch´in questo inferno tormentandosi erra,

acciò con l´ombra sia, che sola avanza,

esempio a chi in Amor pone speranza.[71]

I sentimenti di Orlando in seguito al suo annullamento conterranno solo aggressività e furia distruttrice.

Veder l´ingiuria sua scritta sul monte

l´accese sì, ch´in lui non restò dramma

che non fosse odio, rabbia, ira e furore.[72]

Il protagonista dell´Ariosto sta acquisendo l´altro, da intendersi semplicemente come nuova situazione. Tale acquisizione può essere conseguita solo al prezzo di perdere se stesso, al costo di perdere le “vecchie connessioni” e dare avvio a quelle più recenti, oscure, sconosciute, ma in tutti i modi sempre reagendo.

L´emozione infatti è la fonte principale della presa di coscienza. Senza emozione non c´è trasformazione delle tenebre in luce, dell´inerzia in moto. […] Un complesso è realmente superato soltanto quando lo si è consumato vivendolo fino in fondo…[73]

Prevedere la fuoriuscita del dolore (2)

»Per giungere alla stabilizzazione la devo prevedere. Non devo tornare a prima del caos«[74]. »E´ giusto attenuare il dolore finché ciò non contrasta con la nascita del nuovo«.[75]

»L´uomo come la futura macchina deve prevedere la stabilizzazione quindi la destabilizzazione, il caos, la perturbazione deve essere portata fino in fondo«[76].

Non si guarisce dai sintomi per tornare come prima, ma mediante il percorso nel dolore, che necessariamente implica un aspetto creativo e finalistico, ci si trasforma, si acquisisce uno sguardo più umano e profondo che consente di contenere la sofferenza e di scorgerne il valore.[77]

Il processo di individuazione è simile a quel continuo percorso che il dolore deve compiere dentro di noi.

Nell´individuazione non si può evitare il confronto con la sofferenza e la morte, con i lati oscuri di Dio e della sua creazione, con ciò che ci fa soffrire e con cui tormentiamo noi stessi e gli altri.[78]

Il mio pensiero vola verso te, per raggiungere le immagini, scolpite ormai nella coscienza

come indelebili emozioni che non posso più scordare…

Il pensiero andrà a cercare, tutte le volte che ti sentirò distante,

Tutte le volte che ti vorrei parlare,

per dirti ancora che sei solo tu la cosa che per me è importante…

che per me è importante.[79]

Ж

[1] A. Botticelli, 31/8/73.

[2] C.G. Jung, Simboli gnostici del Sé, in Aion, p. 173.

[3] Platone, Fedone, 72 e in Breviario di Platone, p. 189.

[4] L. Zoja, Coltivare l´anima, p. 70.

[5] C.G. Jung, Anima e morte. Sul rinascere, 1934, p. 11.

[6] A. Botticelli, Cocciano, 1/1/04, 15:49.

[7] C. Stroppa, Così lontano, cos´ vicino, in AA. VV., Anima � Per nascosti sentieri, .p. 39.

[8] Noel Cobb, Maestri per l´anima, p. 170.

[9] C.G. Jung, cit. in Albert Kreinheder, Il corpo e l´anima, dall´introduzione di Carlo Ruffino.

[10] A. Botticelli, Cocciano, 5/1/04.

[11] A. Botticelli, 7/9/73.

[12] A. Botticelli, Il Laboratorio del venerdì, 9/1/04.

[13]B. Malinowski, Culture, in Encyclopaedia of Social Sciences, vol. IV, New York, 1931. trad. it. in P. Rossi (a cura di), Il concetto di cultura, p. 150.

[14] Ivi., p. 183.

[15] A. Botticelli, 19/9/73.

[16] A. Botticelli, 17/9/73.

[17] A. Botticelli,10/1/04, 25/9/73.

[18] G. van der Leeuw, Fenomenologia della religione, Torino, 1992, p.424.

[19] C.G. Jung, commento al Segreto del Fiore d´oro, in Studi sull´alchimia, p. 55.

[20] A. Botticelli, Il Laboratorio del venerdì,

[21] A. Botticelli, 9/1/04, 26/9/73, 9/1/04.

[22] C.G. Jung, cit. da Carlo Stroppa, Confini e sconfinamenti, in Anima, p. 142.

[23] A. Botticelli, Il laboratorio del venerdì.

[24] C.G. Jung, Aion, Bollati Boringhieri, p. 183.

[25] Come si vedrà successivamente la luna e il mare sono molto più vicini di quanto si possa immaginare.

[26] A. Botticelli, 11/1/04, 12/1/04.

[27] A. Botticelli, 8/1/04.

[28] Ernesto de Martino, Sud e Magia, Feltrinelli, Milano, 1959, 2000.

[29] Terminologia che non viene lasciata nella sua staticità, ma che viene continuamente riadattata per trattare la crisi della presenza.

[30] Guy de Maupassant, Novelle, op. cit., vol. III, p. 100.

[31] Ibid. pp. 10,11.

[32] In seguito verrà analizzato più in profondità il termine Io, per ora è fondamentale non considerarlo come sola proprietà della psicologia.

[33] Ernesto de Martino, Sud e Magia, op. cit. p101.

[34] Guy de Maupassant, Novelle, op. cit. pp.11, 12, 22.

[35] Il termine presenza si deve considerare come un Io più espanso in cui in esso è presente il concetto di eredità sociale, ed eredità individuale quindi per quanto ci riguarda di memoria.

[36] Le rose che si piegano possono essere una forma di fluidità.

[37] Ernesto de Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento antico funebre antico al pianto di Maria, Bollati Boringhieri, Torino, 1958, 2000, pp. 30, 31.

[38] Guy de Maupassant, Novelle, op. cit., p. 28.

[39] Ernesto de Martino, Sud e Magia, op. cit. p. 102.

[40] Guy de Maupassant, Le Novelle, op. cit., p. 32,33.

[41] Ibid., p. 32,33.

[42] A. Botticelli, 8/1/04.

[43] A. Botticelli, Il Laboratorio del venerdì, 9/1/04.

[44] A. Botticelli, 20-21/8/73.

[45] A. Botticelli, Il Laboratorio del venerdì, 09/01/04.

[46] A. Botticelli, 6/1/04.

[47] E. De Martino, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, p. 18.

[48] Uno dei critici, più attenti e prolifici, che si sono interessati al pensiero di De Martino.

[49] E. De Martino, Storia e Metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, a cura di M. Massenzio, Lecce, 1995, p. 103.

[50] M. Massenzio, Storia delle religioni e antropologia, in AA.VV., Storia delle religioni, Editori Laterza, Roma-Bari, 1998, p. 528.

[51] Ivi., p. 530.

[52] Ivi., p. 530

[53] A. Botticelli, 8/1/04.

[54] Dante Alighieri, La Divina Commedia, I canto, 1-6.

[55] L. Zoja, Coltivare l´anima, p. 66.

[56] Ibid., II canto, 37-42.

[57] Ibid., V canto, 22-24.

[58] Ibid., V canto, 121-123.

[59] Ibid., V canto, 142.

[60] Il suo senno verrà ritrovato successivamente sulla luna, luogo dagli elevati nessi simbolici.

[61] L. Ariosto, Orlando furioso, XXIII canto, 102, 1-4.

[62] Ivi, XXIII, 103, 5-6.

[63] Ivi, XXIII, 104-3-4

[64] Ivi, XXIII, 104, 5-8.

[65] Ivi, XXIII, 105, 1-6.

[66] Ivi, XXIII, 111, 1-10.

[67] A. Botticelli, 11/1/04.

[68] A. Gareffi, Figure dell´immaginario nell´Orlando Furioso, Bulzoni editore, Roma, 1984, p. 129.

[69] . Ariosto, Orlando furioso, XXIII, 117, 1-2.

[70] Ivi, XXIII, 118, 1.

[71] Ivi, XXIII, 128, 5-8.

[72] Ivi, XXIII, 129, 6-7.

[73] C.G. Jung, cit. in John Weir Perry, Emozioni complessi relazioni, in AA.VV., Anima � Per nascosti sentieri, p. 186.

[74] A. Botticelli, Laboratorio del venerdì

[75] L. Zoja, Coltivare l´anima, p. 65.

[76] A. Botticelli, Laboratorio del venerdì

[77] C. Stroppa, Così lontano, cos´ vicino, in AA. VV., Anima ­ Per nascosti sentieri, .p. 44.

[78] A. Guggenbühl­Craig, Matrimonio, vivi o morti, p. 50.

[79] Tiromancino, Per me è importante.

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