gruppo di frascati

Dentro l’uomo – 2

2 – Me e “giasone”: verso la conoscenza delle nostre risorse (di Armando Guidoni)

Premessa.

Proseguiamo nel “viaggio” annunciato nell’articolo introduttivo a questi “quaderni”, pubblicato nel mese scorso. La metodologia descrittiva prescelta, in questo caso, è tale che, partendo dal sistema visto nella sua complessità, andremo via via ad entrare nei macroparticolari sino ad arrivare ai microparticolari. Ciò significa che, usando una allegoria con il volo, non partiremo con la descrizione della “rampa di lancio” per andare a quella del punto di atterraggio, ma cercheremo di “volare” direttamente e liberamente per poi andare a conoscere le modalità di decollo; ciò per restare più in linea con la figura umana che vola liberamente non conoscendo al momento (quasi l’avesse dimenticato) il modo con cui aveva iniziato il processo.

La tendenza obiettivale del nostro gruppo di ricerca è rivolta alla conoscenza approfondita del cervello biologico ed alla costruzione di una nuova classe di modelli funzionali che si ispirano alla sua struttura. Nel corso del viaggio potranno essere analizzati puntualmente tutti i componenti dei modelli che per ora saranno descritti nel modo appena sufficiente per “accendere” l’immaginazione . Speriamo, pertanto, che la fantasia, sicura dote di tutti i lettori, possa rendere meno fastidiosa l’inevitabile incompletezza iniziale.

Ho attinto i “materiali” da una serie innumerevole di “seminari di lavoro” ai quali ho partecipato, svolti nei laboratori dell’Enea di Frascati e a Monte Compatri (studio di Antonio) dal 1996 ad oggi. Nel testo è mantenuto il tono “non accademico” dei seminari e l’argomento è affrontato e ripetuto numerose volte, sempre visto sotto diverse angolature. Da queste premesse, ne deriva che la descrizione assume un andamento circolare, e le ripetizioni dei “cicli descrittivi” generano un affaticamento della lettura, ancorché un approfondimento maggiore ad ogni ciclo.

La pop art.

Negli anni ’60, nel mondo dell’arte si impose un movimento che fu chiamato pop art (abbreviazione di popular art). Gli artisti di questo movimento riproponevano nelle loro opere i materiali che erano usati nella vita corrente, scrutando la realtà delle cose. In una seconda fase, gli artisti della pop art iniziarono a dissacrare la realtà delle cose, con profonda ironia, nel tentativo di denunciare la vanità e l’assenza di valori di una società che, allora, si presentava nella sua tendenza ad essere rivolta quasi unicamente alla produzione e al consumo. Furono realizzate, allora, anche opere che contenevano nel loro seno il “macchinismo tecnologico” di quella società industriale. Opere “dinamiche” che erano mirate alla “smitizzazione” della tecnologia e che ripetevano all’infinito una serie di movimenti, a volte anche tecnologicamente complessi. Opere prive di uno scopo produttivo o di un obiettivo finale, Opere assolutamente inutili e gonfie della loro voluta e allegorica vanità. L’unico obiettivo prefissato, infatti, era quello di fare pop art e l’effetto finale era assolutamente casuale. L’elevato livello tecnologico eventualmente presente nelle opere era distribuito in numerosi processi autonomi e distinti ma completamente scollegati, logicamente, uno dall’altro.

Se noi immaginassimo di “pervadere” quell’opera artistica con alcune delle “capacità” di un animale intelligente (ad esempio l’uomo) quali la capacità di “leggere” l’ambiente, la capacità evocativa e creativa e la sua continua ricerca di “un equilibrio”, vedremmo ogni singolo processo autonomo assumere immediatamente una “relazione” con gli altri e contribuire, insieme agli altri, in un concerto creativo, alla produzione di un effetto finale non più inutile ma armonico e coordinato. Ebbene, in questo caso il desiderio biologico ha prodotto un effetto finale attraverso un processo intelligente applicato al sistema complessivo.

Se noi immaginassimo di “costruire” tecnologicamente le sopradette capacità e di fornirle ad una macchina, avremmo realizzato la “intelligenza sintetica”.

Partendo da uno stesso desiderio, le due macchine (quella con intelligenza biologica e quella con intelligenza sintetica) produrrebbero sull’ambiente un “effetto” molto simile. Analizzando i due effetti, non saremmo in grado di risalire con certezza ai corrispondenti produttori.

La mente è un processo.

Ricordo ai lettori che nel quaderno introduttivo del mese scorso era stato spezzato il vincolo con il quale la mente è sempre stata vista come sede della spiritualità, ed era stato anche annullato il dualismo mente/corpo, affermando che “la mente non è altro che un ‘processo’ o una serie di processi interferenti all’interno di un sistema complessivo (ambiente, sensori, neuroni, sistema viscerale, muscoli e apparato scheletrico). […] Il risultato di questi processi non è altro che il prodotto di effetti concreti all’interno dell’intero sistema” la cui teoria “fenomenologica” è basata su un modello descrittivo dinamico costruito circolarmente su una serie di livelli (o strati) autonomi ma dipendenti dai livelli adiacenti.

Le macchine e la biologia

In un vocabolario della Lingua Italiana, alla voce “macchina” leggiamo: “Congegno con parti in movimento atte a produrre potenza e lavoro mediante trasformazione di energia o a compiere determinate funzioni altrimenti svolte dall’uomo”. Se noi analizzassimo l’uomo limitandoci, quindi, alla sua forma di “macchina biologica”, si potrebbe dire che essa risponde alla definizione di macchina. Peraltro, gli organi di cui siamo composti costituiscono certamente un sistema fisico che, pertanto, non può non seguire le leggi generali della fisica. A consolidare questa affermazione ci viene in aiuto la tendenza tecnolologica di utilizzare materiali dell’universo della biologia per realizzare, sempre più frequentemente, “macchinismi” particolari. Impercettibilmente si sta andando nella direzione di far divenire evanescente la barriera culturale fra tutto ciò che consideriamo meccanico e ciò che, invece, consideriamo biologico. Si stanno realizzando, per esempio, robot meccanici che attingono energia da uno “stomaco” meccanico dove una colonia di batteri metabolizza alimenti biologici, li trasforma e li converte nell’energia necessaria al funzionamento del robot. Si stanno realizzando “batterie biologiche” di piante usate per la depurazione delle acque di scarico. E molte altre applicazioni di questo genere stanno contribuendo ad azzerare l’antitesi fra macchine e biologia.

Nei Laboratori dell’Enea, il nostro gruppo di ricerca (gruppo di frascati) ha realizzato nel recente passato sistemi con i quali sviluppare macchine capaci di apprendere e di governare autonomamente azioni per le quali sono state “addestrate. Le domande che vengono poste e alle quali, via via, stiamo dando risposte applicative concrete sono: quale è la differenza fra una azione espressa sulla base di un automatismo e quella espressa sulla base di una operazione cosciente? Cosa avviene quando penso? Cosa è una emozione? Potrà una macchina provare emozioni?

L’approccio umanistico

Questi quesiti sono orientati alla conoscenza della natura delle emozioni. Per dare una risposta ad essi occorre, necessariamente, rimanere nella sfera delle emozioni. Ed ecco che l’approccio logico-scientifico non è più sufficiente e si fa ricorso a manifestazioni umane che sono l’espressione massima di eventi emozionali. I contenuti dei cosiddetti aspetti “artistici” dell’uomo , la musica, la pittura e la poesia, sono amalgamati con i temi della ricerca e si intersecano fra loro in un contesto filosofico che rappresenta una vera e propria struttura di concetti e di creazioni artistiche. Il discorso artistico segna la strada con intuizioni ed invenzioni che anticipano ciò che la tecnologia consentirà poi di realizzare. È quasi come preparare una “forma comunicativa” nella quale poi colare il metallo fuso per ottenere l’oggetto concreto finale.

Metafora del repertorio

Tutte le macchine biologiche sono dotate della capacità di evocare, nel loro interno, un repertorio di esperienze provenienti dal sistema costituito dalle numerose “vie di percezione” di cui si dispone.

Immagina il reticolo neuronale figurativo, quello legato al sistema nervoso centrale. Avevo detto che, attraverso il cosiddetto sistema centrale, si dipartono e tornano tutta una serie di canali attraverso i quali entrano le percezioni ambientali ed escono i comandi al sistema muscolare volontario. Più precisamente, quando la membrana costituita da pelle e sensori, è “invasa” da un continuo flusso di diversi “fronti energetici” ambientali, espressioni di diversi “eventi” ambientali, avviene la loro trasformazione in “fronti energetici biochimici” ed il loro trasferimento all’interno del sistema attraverso i neuroni usati come mezzo di trasmissione.

In altri termini, nel nostro sistema nervoso avviene un fenomeno simile a quello che avviene in una macchina semplice come il telegrafo: una volta arrivato lo stimolo dall’esterno, il segnale si propaga all’interno secondo la logica tipica del canale, perdendo così tutte le caratteristiche che lo avevano contraddistinto prima della trasformazione. Bene, questo flusso d’energia “passa” nel sistema neuronale e, nel corso delle interminabili sequenze di passaggi, si generano numerosi fenomeni fra i quali si possono considerare significativi, ai fini del modello che sto descrivendo, questi due:

– Il primo è l’accrescimento dei canali disponibili al flusso. Infatti ogni neurone, mediamente, può costruire circa 3000 dendridi che si collegano ad altri neuroni mediante le cosiddette “connessioni sinaptiche”. Utilizzando i neurotrasmettitori, il segnale bioelettrico “salta” all’interno di un nuovo canale neuronale. È come se un neurone passasse il “testimone” ad un altro neurone in una continua staffetta energetica.

– Il secondo fenomeno è rappresentato dalla “emersione” nell’interno del sistema di una “evocazione” figurativa. Essa è strettamente correlata alla configurazione di flusso attiva al momento e, contemporaneamente, alla configurazione del fronte energetico percettivo, visto nel suo complesso. Ma, la configurazione interna di flusso è una configurazione certamente preesistente rispetto all’istante in cui l’energia esterna ha stimolato i sensori e si è trasformata in flusso. Ciò sta a significare che l’ambiente ha contribuito, o meglio ha determinato, la “riemersione”, in quest’istante, di una evocazione correlata ad un fenomeno avvenuto nel passato.

Questi due fenomeni danno l’idea e la descrizione di ciò che nel nostro gruppo intendiamo per “memoria biologica”. È l’insieme delle diverse combinazioni “istantanee” di flusso possibili; il contesto in cui tali fenomeni avvengono è rappresentato da un circuito che conta, nell’uomo, circa 300.000 miliardi di connessioni sinaptiche dinamiche (immagina il numero di combinazioni diverse possibili!).

Cerco di rappresentare il concetto con una nuova metafora. Immagina che il contesto sia costituito da uno specchio d’acqua del quale non s’intravvedono i limiti. Sotto allo specchio d’acqua avvengono i fenomeni di accrescimento dei canali in una rete enorme capace di “flussare” energia nel modo descritto sopra. Noi non riusciamo ad avere l’idea di questo sistema sommerso poiché non riusciamo a vederlo (prendi questo inciso con le pinze, ma pensa a ciò che normalmente chiamiamo “inconscio”), ma ci troviamo sempre in un’area, più o meno grande, costituita, come fosse un isolotto, dall’insieme delle “emersioni” dell’immaginazione evocativa alimentate dai fronti energetici dell’ambiente che stiamo frequentando in quel momento nonché dalle emersioni che, essendo forzate dalle frequentazioni quotidiane, sono quasi sempre presenti (coscienza). Il sistema complessivo non contiene in sé l’idea di un obiettivo da raggiungere se non semplicemente di mantenersi in equilibrio su uno degli isolotti. A tal fine saranno preferiti gli isolotti corredati di una superficie di appoggio più ampia rispetto a quelli più piccoli.

Quando nella nostra immaginazione si vengono a creare isolotti ampi e stabili, ma separati dal nostro isolotto abituale da un tratto di acqua, la tendenza risulta allora essere quella di “costruire” un itinerario di avvicinamento. Ed ecco che entra in gioco la creatività intrinseca nel sistema e, usando esperienze contenute nel repertorio e associandole al contesto ambientale, si costruiscono idee immaginative nuove (nuovi isolotti) che diverranno trainanti per la realizzazione dell’itinerario necessario. Il meccanismo, però, porterà alla tendenza di integrare gli isolotti in una base sempre più ampia (stabilità) e saranno “respinte” (o almeno non preferite) le azioni esercitate con continui salti da una piattaforma instabile ad un’altra anch’essa instabile.

Tutte le macchine biologiche sono dotate di una architettura simile e si vanno a riempire di repertori esperenziali diversi. Questo meccanismo genera una crosta culturale (quasi uno schermo) che fa perdere di vista le grandi potenzialità, in termini concettuali, di cui disponiamo; basta scavare la crosta e si riesce a penetrare nella nostra singolarità; ma, una volta penetrati in sé stessi, non si riesce quasi mai a verificare l’equivalenza delle altre singolarità.

I “modi di vivere”

Credo che ci sia un modo di vivere “dentro di sé” fatto di un rapporto privilegiato con il proprio intimo, dove l’ambiente ed il rapporto con gli altri assume un’importanza marginale, e credo che ci sia un altro modo di vivere “fuori di sé” fatto nella ricerca solo, o quasi esclusivamente, attraverso il contatto con gli altri, delle risposte che diano una indicazione della propria presenza (la ricerca del riflesso della propria singolarità).

Ambedue i modi di vivere si sostengono con un riflesso (interno in un caso ed esterno nell’altro) che genera le proprie evocazioni in un processo circolare che si “alimenta” con ciò che proviene dall’ambiente ma anche con ciò che proviene dal nostro sistema evocativo. La differenza fra i due modi risiede sostanzialmente nel “peso” che nel processo assume un tipo di “alimentazione” rispetto all’altro.

Un modo più equilibrato di vivere è quello corroborato da un sano intreccio fra la realtà ed il sogno ad occhi aperti, dove tutti e due i riflessi concorrono alla piena immersione della macchina evocativa in un mondo che non suscita più timore perché esso si trasforma continuamente, all’interno della macchina, in evocazione. Un mondo dove diviene possibile volare in esso.

La comunicazione

E qui entra in ballo l’argomento relativo alla comunicazione, che deve allora essere intesa come un rapporto con la realtà non più orientato solo a ciò che gli altri offrono cone modello di riferimento (la bellezza, la famiglia, il lavoro, i figli, ecc.) ma anche orientato alla propria singolarità. È indispensabile che la nostra vita prosegua lungo itinerari fortemente evocati e sentiti emozionalmente e che non debba deviare eccessivamente da essi.

Immagina di avere, dentro di te, un rivelatore di frequenza costituito da un’asta lunghissima che si immerge profondamente nell’interno della tua struttura composta dal repertorio evocativo delle tue esperienze di vita (e di pensiero). Più in fondo vai e più le evocazioni sono astratte. Immagina di poter mettere la tua singolarità in qualunque livello possibile, anche quelli più profondi. In ogni caso possibile, è come se la tua singolarità si trovasse in una specie di “punto di osservazione” da “vedere e sentire” tutti i livelli più esterni, ma nessuno dei livelli più interni. Immagina, ancora, che la tua singolarità vibrasse continuamente e con forza ad una frequenza diversa per ogni livello: più profondo è il livello e più elevata è la frequenza. Il rilevatore porterebbe immediatamente e continuamente lungo l’asta e fino all’esterno quella frequenza e la “diffonderebbe” nell’ambiente.

Immagina, ora, di incontrare un altro individuo. Lui, o lei, è esattamente come te. La sua struttura è identica ma cambia il repertorio evocativo, poiché le esperienze di vita sono diverse. Anche lui, attraverso il suo rivelatore, diffonde una frequenza, ma diversa dalla tua. Essa sarà tipica della profondità in cui sta mettendo, in quel momento, il suo punto di osservazione.

Se associamo ad ogni frequenza uno strumento musicale si può dire che questo sistema, composto dai due individui e dall’ambiente come mezzo trasmissivo, è capace di “risonare” armonicamente solo se le frequenze sono uguali (due violini o due flauti) o, almeno, se esse sono sincronizzate.

Se uno dei due suonasse una nota altissima e l’altro si trovasse ad un livello osservativo (punto di vista interno) caratterizzato da frequenze troppo basse, non sarebbe in grado di “concepire” quel suono che risulterebbe completamente sconosciuto. I due individui del sistema “non sono stati in grado di comunicare”, ognuno ha “suonato” le sue idee e non è avvenuto nulla che potesse generare un “avanzamento culturale” prodotto dalla comunicazione esterna.

Se il sistema venisse ridotto ad un solo individuo, non ci sarebbero problemi comunicativi. Le idee risonano, due alla volta, e la risonanza genera una nuova idea (più profonda). La singolarità sarebbe allora in grado di mettersi al livello di questa nuova idea spostando sempre più in profondità il punto di osservazione ma, contemporaneamente, mettendosi a livelli di frequenza inusuali per gli individui che gli gravitano attorno.

Ma questo non deve essere vissuto come un “problema”. Una volta noto il modello del processo, bisogna assumere la capacità di “scivolare” lungo l’asta e lungo qualsiasi verso che di volta in volta si rendesse necessario.

Allora, se è molto facile comunicare mediante gli strati superficiali, è ben più difficile farlo, dalla profondità, a pari livello con un altra singolarità, anche se infinitamente più gratificante.

I due reticoli: lo scenario

Il “rumore dentro” (l’insieme delle emozioni) è energia bioelettrica che scivola nei canali neuronali. Quando “il ‘rumore’ è troppo elevato” è come se le nostre viscere producessero rumore tutte insieme. Tali rumori allora si sovrappongono uno all’altro, generando un numero enorme di onde emozionali diffuse in tutte le direzioni all’interno del nostro spazio vitale. Ma come rappresentare queste onde emozionali e questo spazio vitale?

Immaginiamo che la nostra mente sia pienamente rappresentata non solo dal cervello ma da esso e dal corpo nel suo insieme. Immaginiamo, ancora, che la mente sia costituita da due reticoli distinti, uno evocativo (figurativo, generatore delle idee) e l’altro vegetativo (umorale). Come sappiamo, tali reticoli collegano fra loro parti ben distinte del nostro organismo e producono effetti, anch’essi distinti, su di esso. Mentre, attraverso il cosiddetto sistema centrale, si dipartono e tornano tutta una serie di canali attraverso i quali entrano le percezioni ambientali ed escono i comandi al sistema muscolare volontario, attraverso il sistema vegetativo si dipartono i comandi al sistema muscolare involontario. Fino a qui nessun problema: due reticoli distinti, due sistemi distinti; un sistema è “volontario” e l’altro è “autonomo” e fa tutto da solo senza che ci sia nessuno che debba preoccuparsi di esso. Questi due reticoli, però, interferiscono (hanno ambedue, contemporaneamente, un effetto) su una parte del nostro sistema di riferimento con il mondo esterno (muscoli e sensori). Ciò significa che se uno dei reticoli attiva questa parte, l’altro potrebbe trovarsi in una fase “antagonista” di disattivazione, generando un effetto di interferenza. Questa parte può essere rappresentata (è una esemplificazione) dal nostro sistema respiratorio. Infatti, i muscoli del torace ed il diaframma sono comandati sia dal nostro sistema centrale volontario (pensiamo di aumentare la frequenza respiratoria e facciamolo ora) che dal sistema vegetativo, il quale agisce anche quando noi siamo in uno stato di incoscienza (durante il sonno o durante una anestesia o durante uno svenimento). Se provassimo a metterci in una condizione di apnea, fermando i muscoli della respirazione, sentiremmo l’effetto di una crescente “sofferenza” a mano a mano che il tasso di ossigeno nel sangue va diminuendo. Il risultato finale sarebbe quello di una forte inspirazione liberatoria. L’effetto antagonista del sistema involontario, attraverso il suo reticolo, prenderebbe il sopravvento su quello volontario. Ora però, dobbiamo considerare che ogni singola fibra muscolare (anche quelle del sistema di respirazione) è caratterizzata da una seconda fibra antagonista che è attivata nella seconda fase del processo (stiamo trattando un processo circolare come quello della respirazione: 1a fase, inspirazione; 2a fase, espirazione).

I due reticoli: l’effetto

Terminata la descrizione dello scenario, proviamo a definire un esempio di “effetto” di una emozione. Abbiamo già detto che quando il rumore emozionale supera una certa soglia, allora aumenta il numero delle onde emozionali, cioè aumenta la quantità di energia (composta da segnali bioelettrici) che circola nei reticoli. Questa energia si diffonde dappertutto e va a “pizzicare”, contemporaneamente, sia le fibre muscolari agoniste che le fibre muscolari antagoniste. L’effetto, allora, sarà quello di un “sottile freno” al processo della respirazione, quasi impercettibile per il sistema volontario ma non per il sistema vegetativo nel quale si attiveranno quelle ghiandole che produrranno, ad esempio, adrenalina che, tra l’altro, funziona da stimolatore delle fibre muscolari, proprio per annullare il “disequilibrio” generato nell’organismo. Non risolvendosi la situazione, si verificherebbe l’aumento dell’insieme dei “sottili freni” che danno quel senso di “oppressione” viscerale e, contemporaneamente, le fibre muscolari, stimolate da un eccesso di adrenalina, inizieranno a contrarsi aumentando il senso di oppressione.

Spero che la lettura di questa descrizione non abbia generato un effetto “ansia indotta” troppo forte, nel qual caso porgo le mie scuse (in me, invece, solo per il fatto di stare qui a descrivere il processo, l’effetto di ansia si è prodotto ampiamente).

In tutta la descrizione fatta (provate a rileggerla) non ho mai messo un “soggetto” né a fronte dei processi attivi (verso l’esterno) né di quelli passivi (percettivi). Ho descritto, infatti, “una macchina senza spirito”, “un sistema metastabile privo di qualsiasi elemento esterno o interno di controllo”. Ma il descrittore (l’osservatore dei fenomeni) si è posto “fuori” (o “dentro”) al sistema, dando continuità all’onnipresente dualismo corpo-anima. Se l’osservatore si mette fuori diviene quasi un “analista” della macchina, ma se si mette dentro, va immediatamente in coincidenza con una “cosa” che è sua, solamente sua, null’altro che sua: la sua singolarità. Ed è proprio lì dentro che la sua singolarità diviene quasi una sorta di “punto di vista” interno dal quale “sentire” e discriminare (disgiungere) gli effetti che la macchina propone. Dal sentire al controllare c’è una distanza non misurabile (chi lo sa se riusciremo a colmarla). Ma se si riuscisse a “sentire” si proverebbe un effetto bellissimo: come vedersi nell’interno di un batiscafo, completamente trasparente, e navigare nel mare emozionale; e “vedersi” (vedere la nostra macchina) cogliere tutte le stelle marine emozionali che via via si incontrano nel viaggio; e “vedersi” mentre “si sente” l’effetto viscerale che esse provocano, ma senza alcuna sofferenza. Non ci sarebbe, allora “l’ansia di abbassare il livello dell’ansia”, si lascerebbe, invece, fare al proprio corpo, più e più volte, analizzando continuamente il meccanismo descritto, e usare questo scenario come se fosse una palestra. Ma non bisogna mai dimenticare che sono sempre e comunque le nostre emozioni e che costituiscono il motore delle nostre risorse. Senza di esse non saremmo mai in grado di esprimere alcun processo intelligente, perché è su esse che vengono costruiti i piloni dai quali poi emergono i blocchi logici del raziocinio.

Copyright © 2015 Controluce - link a Notizie in... Controluce - link al sito dell'ENEA
Graphic Design: Armando Guidoni