La fisiologia umana
In un determinato momento della storia dell’umanità, molto tempo fa, l’uomo iniziò a usare la capacità di concretizzare esaurientemente la propria intenzionalità facendo uso esclusivamente di tutto ciò che il corpo gli offriva. Condizione necessaria – e naturale – per il corpo umano era (ed è) quella di acquisire destrezze. Vale a dire attuare un apprendimento raffinato dei gesti motori ottenuto attraverso una serie intensiva di ripetizioni della medesima successione di gesti elementari.
«La mano non è soltanto l’organo del lavoro: è anche il suo prodotto.» (Engels)
La ‘fisiologia umana’, vale a dire il funzionamento del corpo così come era permesso dalla sua configurazione, consentiva all’uomo di compiere azioni quali camminare, saltare, dormire, bere, mangiare, riprodursi, sollevare, unire, costruire, tracciare segni, rompere, uccidere, ecc.
In un momento successivo della sua evoluzione germogliò in lui il desiderio di realizzare le medesime azioni riducendo la fatica impiegata nella vita quotidiana o nel suo lavoro aumentando l’efficacia dell’azione.
L’uomo iniziò allora a costruire strumenti e a delegare a essi alcune delle potenzialità specifiche della propria fisiologia trasferendole direttamente agli strumenti (clava, pala, leva, ascia, ecc.), usandoli come se fossero un prolungamento delle sue possibilità naturali ai quali conferire una specifica funzione, ma mantenendo a sé le destrezze necessarie per il loro funzionamento.
«In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo per mezzo della propria azione produce, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi i materiali della natura in forma usabile per la propria vita.» (Karl Marx, Il Capitale)
La destrezza dell’uomo
Nel XIX Secolo l’evoluzione tecnologica ha vissuto un periodo di grandi conquiste della scienza e della tecnologia.
Ora la nostra vita è affiancata dalla presenza delle macchine anche al di fuori della sfera produttiva e tecnologica. Quotidianamente ognuno di noi le usa. Se ci soffermiamo un attimo a pensare alla nostra giornata, ci accorgiamo che le usiamo per comunicare, muoverci, mangiare, lavorare. Non solo, le ritroviamo anche all’interno del nostro corpo per recuperare alcune funzionalità ‘assopite’.
Con l’avvento di macchine più complesse, comunque, l’uomo iniziò a trasferire in esse una parte delle proprie destrezze. Le macchine automatiche, infatti, contengono nel proprio seno una parte della successione di gesti elementari che l’uomo ha appreso nel corso di un’operazione di manipolazione complessa della materia. E le macchine ripetono continuamente quell’insieme di operazioni che fanno parte della ‘identità operativa’ di un uomo costruita attraverso le sue esperienze.
Dalla autonomia alla ‘autonomatica’
Ma cosa avverrebbe nel ciclo produttivo se si verificasse un ‘evento non previsto’ all’interno della procedura? Il ciclo si interromperebbe in quanto la macchina non è dotata di autonomia. Immaginate, invece, di avere un sistema dotato di ‘capacità percettiva’ dell’ambiente, di ‘capacità motoria’ attraverso il controllo totale degli attuatori del sistema, di ‘capacità immaginativa’ attraverso la ricostruzione in tempo reale dell’ambiente operativo e delle sue modificazioni e di una ‘capacità emotiva’ che lo spinga a raggiungere, comunque, un desiderio prefissato. Una volta assegnato un compito al sistema esso userà le sue potenzialità per raggiungere l’obiettivo desiderato anche superando eventi non previsti, a patto che tali azioni rientrino nell’ambito delle sue potenzialità. Si tratterebbe, a tutti gli effetti, di un sistema, usando un neologismo, ‘autonomatico’ (automatico-autonomo). Un sistema del genere è stato realizzato dall’ENEA all’interno di un’unità di ricerca: il ‘gruppo di Frascati’.
La progettualità
Il settore della robotica e dell’intelligenza artificiale rappresenta la filosofia di sperimentazione del nostro tempo. Nel prossimo futuro, con le recenti metodologie sul tema dei processi mentali e con l’importanza sempre crescente delle tecnologie nelle diverse forme dell’apprendimento, si intraprenderà un cammino che porterà alla costruzione di macchine capaci di osservare, apprendere, pensare. Nelle quali possa risiedere una caratteristica intrinseca tale da fornire a esse la ‘capacità progettuale’ ovvero una sorta di creatività.
Anche se alcune linee di pensiero odierne seguitano ad affermare che le macchine, costruite con parti non biologiche, non saranno mai capaci di pensiero creativo (perché questa ‘idea’ è ancora assolutamente inconcepita), si può affermare che la loro evoluzione le destinerà, invece, ad attività generali di tipo cognitivo, simili a quelle che molti associano solamente alla creatività del pensiero umano.
È bene sottolineare le parole ‘di tipo cognitivo’ perché non si confonda l’idea di replicare il pensiero umano con quella di copiare alcune funzionalità cognitive dei sistemi biologici.L’attuale tendenza è rivolta, come abbiamo detto, a pensare ai robot intelligenti. Ci conduce a fare una riflessione sull’intelligenza naturale, sui tentativi di immettere intelligenza nelle macchine. Ci conduce a parlare di mente e di corpo anche per i robot. Ci conduce ad accarezzare il sogno di assegnare alle macchine capacità di tipo umano.
Il confine fra biologico e meccanico
Uno dei grandi obiettivi che oggi gli scienziati hanno di fronte è sicuramente l’abbattimento del confine fra ciò che consideriamo naturale, biologico, vivente e ciò che consideriamo meccanico, tecnologico, inanimato.
È certo che anche la materia vivente segue tutte le leggi della fisica. Un pezzo di materia è ‘vivo’ quando condivide la materia e l’energia con l’ambiente nel quale si trova immerso. In questa continua attività metabolica e motoria esso ‘si trova’ a produrre strutture, forme e ordine alimentandosi con il caos che lo circonda. La struttura della materia vivente – come indicò il fisico Erwin Schroedinger nelle sue memorabili lezioni su Che cosa è la vita?tenute al Trinity College di Dublino nella metà degli anni ’40, qualche tempo prima della scoperta della doppia elica della struttura del DNA – non è però pienamente riconducibile alle normali leggi della meccanica:
«non perché vi sia una forza nascosta che anima gli organismi, come sostenuto dalle molteplici versioni della filosofia vitalista, ma perché la sua costruzione rappresenta una modalità particolare di organizzazione della materia fisica stessa.»
Infatti, i sistemi viventi tendono ad autogenerare strutture organiche sempre più sviluppate, unendo nuove parti o riorganizzando le strutture precedenti. Ciò fa sì che la quantità di elementi e di interrelazioni in un sistema organico raggiunga livelli elevatissimi. I due mondi, però, sono sfumati uno nell’altro. Molti elementi della natura sono oggi un po’ macchine e molti elementi meccanici sono realizzati con componenti biologici.
A consolidare questa affermazione ci viene in aiuto la tendenza tecnologica di utilizzare materiali dell’universo della biologia per realizzare, sempre più frequentemente, ‘macchinismi’ particolari.
Impercettibilmente si sta andando nella direzione di far divenire evanescente la barriera culturale fra tutto ciò che consideriamo meccanico e ciò che, invece, consideriamo biologico. Si stanno realizzando, per esempio, robot meccanici che attingono energia da uno ‘stomaco meccanico’ nel quale una colonia di batteri metabolizza alimenti biologici, li trasforma e li converte nell’energia necessaria al funzionamento dello stesso robot.
Si sta studiando una nuova forma di computer che utilizza la biochimica e la biologia molecolare al posto dei tradizionali computer a base di silicio. Nel frattempo altri ricercatori studiano come utilizzare i virus per fare le pile e i batteri per produrre il metano. E molte altre applicazioni di questo genere stanno contribuendo ad azzerare l’antitesi fra macchine e biologia.
La scienza sta intuendo e, lungo il percorso, sta constatando che i processi di percezione, memorizzazione e comprensione, propri della mente umana, rappresentano una importante fonte di ispirazione per la costruzione di meccanismi di comunicazione e controllo di unità artificiali evolute.
Sulla scena si presenta prepotentemente il sogno bionico di diventare tutt’uno con la macchina vista come una ‘protesi intelligente’.
Oggi, si sta diffondendo l’idea che il nostro corpo potrà essere riprodotto sinteticamente.
Da tutto ciò, vediamo svilupparsi una fase di ‘controtendenza’ dalla quale emerge sufficiente materiale immaginario per poter ricostruire una rispiritualizzazione dell’uomo:
Scoprire che la mia mente è una macchina mi permetterà di volare liberamente del mio spirito (antonio, 1997)
Diagramma evolutivo delle macchine
In questo diagramma sono riportate:
in verticale: a sinistra, gli strumenti delle conquiste tecnologiche e a destrale corrispondenti funzioni fisiologiche; in orizzontale: in alto, alcune delle capacità generali dell’uomo e, in basso, quelle delle macchine.
La linea del diagramma descrive il trasferimento alle macchine, nel tempo, di alcune capacità dell’uomo.
Nel diagramma possiamo osservare come, con l’utilizzo dei primi strumenti (clava, pala), l’uomo abbia trasferito a essi alcune funzioni fisiologiche (soggettività fisica).
Con l’invenzione di macchine sempre più complesse (dagli ‘automi’ dell’antichità fino alla realizzazione delle ‘macchine automatiche’), poi, abbia trasferito a esse una parte delle proprie destrezze (identità operativa).
Con la realizzazione di ‘macchine autonomatiche’, infine, è possibile trasferire a esse una parte delle capacità dell’uomo legate alla propria ‘autonomia’.
Resta solo da proseguire in questa ‘dinamica evolutiva’ e realizzare l’ipersogno: ‘macchine creative’ alle quali assegnare una parte della ‘capacità progettuale’ dell’uomo.
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